Etica, quel prezioso bene immateriale di un’azienda

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La crisi economica arriva dopo un’altra crisi dirompente: la destrutturazione dei fondamenti etici del lavoro e del fare impresa. E’ da mesi che il comparto di analisti della Harvard Business School, unitamente alla McKinsey, ragionano di “short-termism” del capitalismo, intendendo con ciò la crisi di un’idea di capitalismo come motore dello sviluppo e della creazione di valore. Valore come civiltà, etica degli affari, trasparenza e “distruzione creatrice”, il capitalismo secondo Schumpeter”.

 

Questo scenario è disegnato su Arkegos dal giornalista e scrittore toscano Raffaele Iannuzzi in un interessato e pungente articolo dal titolo “Progetto Valutatore Etico di Impresa”.

Per Iannuzzi “senza i fondamenti etici e le virtù adeguate al fare impresa e al lavoro tout court, il capitalismo non riuscirà ad uscire fuori dalle secche di questa crisi. Perché le soluzioni, poco o tanto, saranno sempre le stesse, come i dati più recenti del trend finanziario sta dimostrando: la speculazione sta tornando e il turbo capitalismo finanziario è ancora attivo.”

Iannuzzi afferma che “non si tratta di fare retorica a buon mercato sulla crisi etica del capitalismo. Il vero nodo della vicenda è ripensare la valutazione del valore d’impresa in termini più larghi e capaci di includere ciò che finora è stato escluso: la trasparenza dell’impresa, il suo valore come “comunità creatrice di valore” e il significato del lavoro non solo come volano della produttività, ma anche come “unità etica di prodotto”. Ogni impresa usa il calcolo economico. Ma questo strumento esclude, per sua natura, il valore etico di impresa. Costituito da almeno 3 fattori: a) la trasparenza; b) il “customer-care” come cultura dell’attenzione alla persona e della creazione di valore aggiunto; c) la qualità del prodotto dei singoli addetti dell’impresa.

In ordine: la trasparenza è il rapporto tra la missione storica dell’impresa e la comunicazione della stessa missione ai clienti. Non è meramente un fatto tecnico-procedurale, come si insegna nelle business school, ma è soprattutto una cultura personalistica basata su fondamenti etici e comunicativi. La comunicazione di sé all’altro è il primo principio della comunicazione. Non si comunica innanzitutto qualcosa, ma qualcuno. Tradotto sul piano aziendale: la “mission” è reale se e solo se comunica un soggetto che sta alle spalle della stessa. Una soggettività e una comunità operante, al lavoro per realizzare la missione storica dell’impresa. Il “customer-care”, di conseguenza, è la sporgenza personalistica della comunicazione della missione storica dell’impresa, così come sopra declinata. Non è un di più a misura del consumo del cliente, ma è la cifra dell’essere-impresa come comunità etica e produttiva. La qualità del prodotto dei singoli addetti all’impresa è legata all’idea delle maestranze come soggetti protagonisti di una storia comune e, dunque, in grado di arricchire di significati e valore immateriale il prodotto. Che, così, diventa “opus”, opera comune. L’impresa è una comunità etica e produttiva. Produce cultura, etica d’impresa (per l’impresa e come impresa) e valore materiale e immateriale.”

Questa per Iannuzzi potrebbe rappresentare in sintesi una proposta:  

Inserire nel calcolo economico d’impresa il valore immateriale non come ulteriore cifra aggiunta alla produttività, ma come prospettiva dell’azienda in termini d’espansione della sua immagine e del suo percorso storico. L’operazione è fattibile perché si possono calcolare i tempi di lavoro e il tempo libero; la flessibilità dell’addetto e la sua capacità di leadership nel contesto nel quale si trova a lavorare; gli esiti comunicativi ed educativi della sua presenza, in termini di benessere ambientale e unità di prodotto raggiunta dal comparto. Si tratta di raggiungere un calcolo economico in cui il valore sia la dimensione originaria del profitto e della produttività, secondo la formula: ‘non solo profitto’. Che spesso resta campata in aria e che, invece, può trovare fondamenti reali ed oggettivi nella ridefinizione dell’idea-forza di ‘valore’ e di ‘unità etica di prodotto’”.

L’esperimento, ad avviso di Iannuzzi, “è da realizzare con micro-unità di addetti all’impresa, spostati dai luoghi comuni di competenza, in un clima lavorativo diverso, con il peso di una nuova responsabilità: partire quasi da zero con la formazione. Questo compito può accrescere il senso di appartenenza e di comunità, rendendo solidi e fruttuosi certe relazioni tra operai. Ma può anche inasprire i rapporti e rendere difficile il lavoro in comune

Creare questi progetti-pilota di nuovo adattamento facilita la flessibilità adattativa e il senso etico verso l’impresa e i compagni di lavoro. Non solo: rende presente, nel qui e ora, la necessità di riacquisire esperienze ed abilità quasi se si dovesse trovare un nuovo lavoro, magari a cinquant’anni. E’ un esercizio al sacrificio che rende cogente e stringente la dimensione etica della relazione e del dono di sé all’altro (che fa la stessa fatica mia, in quel momento), rilanciando l’idea di creazione di valore immateriale per unità di prodotto (nuovo) da realizzare.

L’impresa-comunità diventa il luogo dell’unità etica di prodotto, della formazione e della conoscenza. Un luogo di crescita della civiltà materiale e immateriale. Il miglior modo di concepire e vivere la globalizzazione e l’emergenza della nuova società dei servizi a getto continuo. I servizi non esistono senza il ‘servizio’”.

 

Tratto da Arkegos – Centro Studi Internazionale

http://www.arkegos.org